Recensione album: Lil Wayne – “Funeral”

Lil Wayne vive sia figurativamente che letteralmente in un’altra stratosfera, e nessuno può dirmi il contrario. In una fantastica intervista su Revolt TV, Weezy ha fatto i suoi soliti proclami sconcertanti su certi aspetti dell’industria musicale mentre fumava una canna dopo l’altra per due ore di fila (cioè non sapeva chi fosse 21 Savage o cosa fosse la TDE).

E se questo non basta a dimostrare il mio punto di vista sulla sua esistenza esistenziale, allora forse Funeral lo farà. Wayne sfugge con successo alla costante attenzione dei media che precede e segue Tha Carter V, un album che aveva un’aura sublime prima ancora di essere pubblicato (per una serie di ragioni diverse, compresi i problemi con l’etichetta). L’eredità di Wheezy è fondamentalmente costruita sui suoi imperituri mix-tape e sulla classica serie Carter, quindi le aspettative erano già astronomiche. L’album alla fine avrebbe raccolto recensioni contrastanti, con molti critici che notarono l’irregolarità del progetto e la mancanza di concentrazione.

Ad essere onesti però, non ci sono molti album di Wayne che seguono un tema coerente. Il suo marchio è sempre stato quello di rappare il suo culo, non importa a quale costo. Ed è esattamente quello che fa in Funeral; un disco pieno di schemi di rime a mosaico, versatilità eterna e imprevedibilità senza sosta.

Come ci si aspetta in qualsiasi album di 24 canzoni, non tutte le idee funzionano a pieno regime. Ci sono blande canzoni pop che coinvolgono vuote narrazioni di hater millenari (“Trust Nobody” con l’ultimo idiota, Adam Levine). Ci sono uno o due casi in cui Wayne usa una canzone al solo scopo di enfatizzare le celebrità di successo (“Bing James” e “Ball Hard”); un disegno che alla fine non va da nessuna parte nel grande schema delle cose.

Ma per la maggior parte, la leggenda di New Orleans rimane nella sua tasca, che di solito cade da qualche parte tra Terra e Nuptia 4. Si dimena e si contorce attraverso synth glaciali su “Mamma Mia”, e produce uno spettacolo di parole su “Mahogany”, prodotto da Mannie Fresh, un sequel non ufficiale del club-ready banger “Uproar” (“I’m out of my Kufi, abusatore di narcotici/Nessuna siringa, perché le mie tasche si stanno gonfiando/I tuoi partner sono barboncini/I tuoi orsi sono cuccioli, i tuoi coccodrilli sono sdentati/Titty-fuck your baby mama, lei allatta il suo bambino mentre io lo faccio”).

Weezy ha la capacità innata di far sembrare eccitante la merda più insensata. È un’entità unica in questo senso, anche se artisti come Young Thug hanno sicuramente portato le volgarità scioccanti all’estremo. E mentre Wayne è famoso per essere il nonno di molte delle estetiche moderne del rap, Funeral è solo un altro esempio di quanto sia migliore dei suoi contemporanei nell’eseguirle.

Il 37enne aggiunge alla sua illustre eredità un gioco di parole volubile e scelte di stile volatili. La title track suggerisce un cambiamento di tono molto più grande questa volta, dato che Wayne rappa ferocemente sulla chiusura della bara di uno, e sullo sparare al funerale (“Welcome to the funeral/The choir’s singing musicals/Kumbaya, it’s beautiful/I bust in with that Uzi though”). È calmo, raccolto, ma in attesa di scoppiare dal suo guscio in qualsiasi momento. Quando entra il campione dai toni gospel, scoppia il caos.

Sorprendentemente, però, Wayne si astiene da questo tono torbido per la maggior parte dell’album. Rientra solo a tratti, in particolare nell’altrettanto straziante “Bastard (Satan’s Son)”, un ritratto a casaccio delle passate tribolazioni familiari di Wayne. Il contesto personale e religioso di questa canzone fa sembrare la malizia voodoo di Robert Johnson addomesticata.

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Ci sono anche altri forti momenti di carattere in Funeral. “Dreams”, anche se leggera in profondità, evoca interessanti frammenti di un’idea generale. Wayne si sveglia urgentemente da un torpore indotto dalla magra per realizzare fortunatamente che le sue tendenze capitalistiche sono ancora intatte. “Piano Trap” racchiude alcune delle sue migliori rime dal 2009, e “Sights and Silencers” agisce come un formidabile interludio ad un’avventura altrimenti rauca.

Ironicamente, questa è più una “Rinascita” di quanto Wayne probabilmente avrebbe immaginato. Nessuno si aspettava un progetto così esaltante, e così stilisticamente vario. L’unica persona che probabilmente lo faceva era Wayne, il ragazzo che non può e non vuole smettere di sputare fuoco nel microfono.

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