Dante’s Inferno – Cerchio 9 – Canto 31-34

Treachery: Caina (32), Antenora (32-3), Ptolomea (33), Giudecca (34)
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Dante divide il cerchio 9, il cerchio del tradimento – definito in Inferno 11 come atti fraudolenti tra individui che condividono speciali legami di amore e fiducia (61-6) – in quattro regioni. Caina prende il nome dal biblico Caino (primo figlio di Adamo ed Eva), che uccise suo fratello Abele per invidia dopo che Dio aveva mostrato apprezzamento per l’offerta sacrificale di Abele ma non per quella di Caino (Genesi 4:1-17); condannato a un’esistenza da vagabondo, Caino costruì poi una città (dal nome di suo figlio, Henoch) che per alcuni teologi cristiani – in particolare Agostino (Città di Dio, libro 15) – rappresentava i mali della città terrena. Nel cerchio dei lussuriosi, Francesca identifica il marito (Gianciotto) – che ha ucciso lei e Paolo (fratello di Gianciotto) – come un futuro abitante di Caina (Inf. 5.107). L’attenzione di Dante è qui attirata da due fratelli, il ghibellino Napoleone e il guelfo Alessandro, che si uccisero a vicenda a causa di una disputa sulla loro eredità (Inf. 32.55-60).
La seconda regione, Antenora, prende il nome dal principe troiano Antenore. Mentre le fonti classiche – in particolare l’Iliade di Omero – presentano Antenore in una luce positiva (o almeno neutrale) come uno a favore della restituzione di Elena ai Greci per il bene di Troia, le versioni medievali – storie, commenti e romanzi – lo vedono come un “Giuda infido” che complotta con i Greci per distruggere la città. Dante colloca in questa regione coloro che hanno tradito il loro partito politico o la loro patria.
Nella terza zona del cerchio 9 soffrono coloro che hanno tradito amici o ospiti. Ptolomea prende il nome da uno o entrambi i seguenti: Tolomeo, il capitano di Gerico, onorò suo suocero, il sommo sacerdote Simone Maccabeo, e due figli di Simone con una grande festa e poi li uccise (1 Maccabei 16:11-17); Tolomeo XII, fratello di Cleopatra, fece in modo che il generale romano Pompeo – in cerca di rifugio dopo la sua sconfitta nella battaglia di Farsalia (48 a.C.) – fosse ucciso non appena avesse messo piede a terra. Dante mostra la sua avversione per tali crimini ideando una regola speciale per coloro che tradiscono i loro ospiti: le loro anime scendono immediatamente all’inferno e i loro corpi vivi sono posseduti dai demoni quando commettono questi atti (Inf. 33.121-6).
La Giudecca, dal nome dell’apostolo che tradì Gesù (Giuda Iscariota), è la zona più interna del nono e ultimo cerchio dell’inferno. Il termine allude anche a una manifestazione del pregiudizio cristiano – che Dante certamente condivide – nei confronti dell’ebraismo e degli ebrei nel Medioevo: allude ai nomi – Iudeca, Judaica – della zona all’interno di certe città (per esempio, Venezia) dove gli ebrei erano costretti a vivere, separati dalla popolazione cristiana. Insieme a Giuda in questa regione dell’inferno ci sono altri che, tradendo i loro padroni o benefattori, hanno commesso crimini con grandi conseguenze storiche e sociali. Completamente coperti dal ghiaccio – come “paglia nel vetro” – le ombre sono bloccate in varie posture senza alcuna mobilità o suono (Inf. 34.10-15).

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Gianti (31)
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I giganti collegano fisicamente i cerchi 8 e 9: in piedi sul pavimento del cerchio 9 – o forse su una sporgenza sopra il fondo dell’inferno – le metà superiori dei loro enormi corpi sovrastano il bordo interno del cerchio 8. Da lontano, infatti, Dante inizialmente scambia i Giganti per vere e proprie torri (Inf. 31.19-45). Anticipando la figura ancora più grande di Lucifero, i Giganti di Dante – tratti da storie bibliche e classiche – sono esempi archetipici di ribelli sfiduciati. Nimrod, descritto nella Bibbia come un “robusto cacciatore davanti al Signore” (Genesi 10:9), era visto come un gigante nella tradizione medievale che Dante segue. Secondo il racconto biblico, gli abitanti della regione governata da Nimrod – Babilonia e altre città della terra di Sennaar – progettano di costruire una torre che raggiunga il cielo; Dio mostra il suo dispiacere disperdendo il popolo e distruggendo l’unità della loro lingua in modo che non capiscano più le parole degli altri (Genesi 11:1-9). Dante, seguendo la tradizione, dà la colpa di questa confusione linguistica a Nimrod, la cui lingua è ora incomprensibile per gli altri come le loro lingue lo sono per lui (Inf. 31.67-9; 76-81). Nella sua descrizione fisica di Nimrod, Dante rafforza l’associazione dei Giganti con le conseguenze rovinose dell’orgoglio: 1) paragonando le dimensioni della faccia di Nimrod alla pigna di San Pietro a Roma (Inf. 31.58-60), Dante forse intende fare un parallelo poco lusinghiero con l’attuale papa, Bonifacio VIII; 2) la parola che Dante usa -perizoma – per comunicare come la riva interna del cerchio 8 copra la metà inferiore del corpo dei Giganti come un “grembiule” (Inf. 31.61-2) è una parola insolita (di origine greca) probabilmente familiare ai lettori di Dante da un verso biblico che descrive la vergogna di Adamo ed Eva dopo la loro disobbedienza nel giardino dell’Eden: “E gli occhi di entrambi si aprirono; e quando si accorsero di essere nudi, cucirono insieme foglie di fico e si fecero dei grembiuli” (Genesi 3:7).
Nel loro passaggio dal cerchio 8 al cerchio 9, Dante e Virgilio vedono altri due Giganti, entrambi della tradizione classica. Efialte era uno dei Giganti che combattevano contro Giove e gli altri dei dell’Olimpo (Inf. 31.91-6). Efialte e suo fratello gemello Otus (erano figli di Nettuno e di Ifimedia, moglie del gigante Aloeo), tentarono di scalare il monte Olimpo e detronizzare gli dei impilando il monte Pelio in cima al monte Ossa in Macedonia (Aen. 6.582-4); furono uccisi, secondo il noto commento medievale di Servio sull’Eneide, con frecce scagliate da Apollo e Diana. Si noti la reazione di Efialte all’affermazione di Virgilio che un altro gigante – Briareo – ha un aspetto ancora più feroce (Inf. 31.106-11). Come gli altri giganti che hanno sfidato gli dei, Efialte è immobilizzato da catene nell’inferno di Dante. Anteo, che può parlare, è probabilmente libero perché è nato dopo che i suoi fratelli hanno fatto guerra agli dei. È quindi in grado di sollevare Dante e Virgilio e depositarli sul pavimento del nono e ultimo cerchio dell’inferno (Inf. 31.130-45). Per assicurarsi questa assistenza, Virgilio alletta Anteo con la prospettiva di una fama continua (al ritorno di Dante nel mondo) basata sulla formidabile reputazione del Gigante. Qui la fonte di Dante è Lucano, che racconta come Anteo, una temibile prole della Terra la cui forza è stata ricostituita dal contatto con sua madre, abbia banchettato con i leoni e massacrato contadini e viaggiatori intorno alla sua cavernosa dimora in Nord Africa, finché non ha incontrato il suo pari in Ercole. L’eroe e il gigante si impegnarono in una gara di lotta, che Ercole alla fine vinse sollevando Anteo da terra e schiacciandolo a morte (Pharsalia 4.593-653). L’incontro fatale del Gigante con Ercole non è ricordato da Virgilio nella sua supplica per l’aiuto di Anteo (Inf. 31.115-29) ma dal narratore (31.132). Virgilio, tuttavia, è sicuro di ribadire il suggerimento di Lucano che i Giganti avrebbero potuto effettivamente sconfiggere gli dei se Anteo fosse stato presente alla battaglia di Flegra (31.119-21; vedi anche Inf. 14.58).

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Bocca degli Abati (32)
BoccaBocca
Dante certamente non prova alcun rimorso per aver dato un forte calcio in faccia a un’ombra una volta appresa l’identità del traditore politico (Inf. 32.73-8). L’ombra offesa attira immediatamente l’interesse di Dante alludendo a Montaperti (vicino a Siena), luogo della leggendaria battaglia (1260) in cui i guelfi fiorentini furono sbaragliati dalle forze ghibelline che includevano, tra gli esuli di Firenze, Farinata degli Uberti. L’identità dell’ombra rimane nascosta, anche se Dante cerca di estorcergliela strappandogli pezzi di capelli, fino a quando un altro traditore nel ghiaccio chiama il nome del miserabile: Bocca è prontamente all’altezza del suo nome (bocca significa “bocca”) identificando l’informatore insieme ad altri quattro traditori del partito politico o della patria (Inf. 32.112-23). Bocca degli Abati apparteneva a una famiglia ghibellina che rimase a Firenze dopo che altri ghibellini furono banditi nel 1258 per il loro ruolo in un complotto sventato. Fingendo di combattere dalla parte dei guelfi (come parte della cavalleria), Bocca tradì i suoi compatrioti guelfi in un momento decisivo della battaglia – quando le truppe mercenarie tedesche attaccarono a sostegno dei ghibellini toscani – tagliando la mano del portabandiera guelfo. Demoralizzati dal tradimento di Bocca e dalla perdita della loro bandiera, i guelfi furono presi dal panico e furono sconfitti.
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Ugolino e Ruggieri (32-3)
Ugolino  RuggieriUgolino  RuggieriUgolinoUgolinoUgolinoUgolinoUgolino
There non c’è forse scena più macabra in tutto l’Inferno della rappresentazione dantesca di Ugolino che mangia la nuca di Ruggieri come un cane che usa i suoi forti denti per rosicchiare un osso (Inf. 32.124-32; 33.76-8). Il racconto di Ugolino, il più lungo discorso singolo di uno dei dannati, è la rappresentazione drammatica finale di Dante nell’Inferno della capacità del genere umano di essere malvagio e crudele. Mirata a spiegare la scena del cannibalismo all’inferno, la storia di Ugolino è tanto più potente perché l’oratore non fa alcun tentativo di discolparsi del crimine – il tradimento politico – per il quale è condannato alla dannazione eterna. Egli desidera invece diffamare il suo nemico e suscitare la compassione del suo pubblico raccontando il modo brutale in cui lui e i suoi figli innocenti sono stati uccisi.
Il Conte Ugolino della Gherardesca si è guadagnato un posto in Antenora – il regno dei traditori politici – per una serie di tradimenti contro Pisa e la sua leadership politica. Dante menziona solo il presunto atto di tradimento che alla fine portò alla caduta di Ugolino: nel tentativo di placare le ostili e potenti forze guelfe in Toscana, Ugolino cedette i castelli pisani a Firenze e Lucca nel 1285 (Inf. 33.85-6). Tuttavia, i primi commentatori e cronisti descrivono altri – anche più dannosi – esempi di fedeltà mutevoli e tradimenti nella lunga vita politica del conte Ugolino. Nato in un’importante famiglia ghibellina a Pisa, Ugolino passò dalla parte dei guelfi in seguito alla loro ascesa nella politica toscana e tentò di installare un governo guelfo a Pisa nel 1274-5. Non avendo successo in questo tentativo, fu imprigionato e poi esiliato. Nel 1284, diversi anni dopo il suo ritorno, Ugolino guidò le forze pisane in una battaglia navale contro la rivale Genova; nonostante la sconfitta, Ugolino fu eletto podestà (capo politico) di Pisa e suo nipote guelfo, Nino Visconti, lo raggiunse presto al potere come “capitano del popolo”. Fu in questo periodo che Ugolino, per convenienza politica, cedette i castelli pisani a Lucca e Firenze, una decisione che causò una spaccatura tra lui e suo nipote e tra i loro seguaci guelfi. Approfittando delle risorgenti fortune ghibelline in Toscana, Ugolino connivente con i ghibellini pisani, guidati dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini; Ugolino acconsentì alle richieste ghibelline che suo nipote Nino fosse cacciato dalla città, un ordine che fu eseguito – con Ugolino volutamente assente dalla città – nel 1288. Il traditore, tuttavia, fu a sua volta tradito: al ritorno di Ugolino a Pisa, Ruggieri incitò il pubblico contro di lui (sfruttando abilmente il precedente “tradimento dei castelli” di Ugolino) e fece arrestare e imprigionare il conte, insieme a due figli (Gaddo e Uguiccione) e due nipoti (Anselmo e Brigata). Furono tenuti nella torre per otto mesi finché, con un cambiamento nella leadership ghibellina di Pisa, fu deciso di inchiodare la porta della torre e di gettare la chiave in Arno. Morirono di fame, come ricorda Ugolino di Dante, nel giro di pochi giorni (Inf. 33.67-75).

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Fra Alberigo (33)
Fra Alberigo
Dante inganna abilmente un’ombra a rivelare la sua identità facendo un accordo subdolo (Inf. 33.109-17): se non allevia le sofferenze del traditore (rimuovendo il ghiaccio – le lacrime congelate – dal volto del traditore) in cambio di questa informazione, Dante dice che dovrebbe essere mandato nel fondo dell’inferno! Dante apprende così che l’anima di Fra Alberigo è all’inferno anche se il suo corpo è ancora vivo sulla terra nel 1300, l’anno del viaggio (si pensa sia morto nel 1307). Richiamando l’attenzione di Dante sull’ombra di Branca Doria (che in realtà vivrà altri venticinque anni), Alberigo spiega che le anime di coloro che tradiscono i loro ospiti scendono immediatamente in Tolomea poiché i loro corpi sono posseduti dai demoni (Inf. 33.124-47). Fra Alberigo, della famiglia guelfa regnante di Faenza (vicino a Ravenna), era un frate gioviano – un ordine religioso fondato con l’obiettivo di fare la pace (nelle famiglie e nelle città) ma presto meglio conosciuto per la decadenza e la corruzione. Un parente stretto, Manfred, tramava contro Alberigo per il potere politico; come risultato di questa disputa, Manfred colpì Alberigo, la cui crudele risposta gli valse un posto tra i traditori all’inferno. Fingendo che l’alterco fosse stato dimenticato, Alberigo invitò Manfred e suo figlio ad un sontuoso banchetto; quando, alla fine del pasto, il padrone di casa diede il segnale (“Portate la frutta!”), servi armati uscirono da dietro una tenda e massacrarono gli ospiti, con grande gioia di Alberigo.
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Lucifero (con Bruto, Giuda, & Cassio) (34)
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Lucifero, Satana, Dis, Belzebù–Dante getta tutti i nomi del libro sul Diavolo, una volta l’angelo più bello (Lucifero significa “portatore di luce”) poi – dopo la sua ribellione contro Dio – la fonte del male e del dolore nel mondo, a partire dalla sua corruzione di Eva e Adamo nel giardino dell’Eden (Genesi 3). Il Lucifero di Dante è un composito parodico della sua malvagità e dei poteri divini che lo puniscono all’inferno. Brutto come una volta era bello, Lucifero è il miserabile imperatore dell’inferno, la cui tremenda grandezza (è nano anche dei Giganti) è in contrasto con i suoi poteri limitati: le sue ali che sbattono generano il vento che mantiene il lago ghiacciato e le sue tre bocche masticano i corpi d’ombra di tre arci-traditori, il cui sangue si mischia alle lacrime che sgorgano dai tre gruppi di occhi di Lucifero (Inf. 34.53-7). Le tre facce di Lucifero – ognuna di un colore diverso (rosso, giallo-biancastro, nero) – parodiano la dottrina della Trinità: tre persone complete (Padre, Figlio, Spirito Santo) in una sola natura divina – il Potere Divino, la Massima Saggezza e l’Amore Primordiale che hanno creato la Porta dell’Inferno e, per estensione, l’intero regno della dannazione eterna. Con la metà superiore del suo corpo che torreggia sul ghiaccio, Lucifero assomiglia ai Giganti e ad altre figure semi-visibili; Dopo che Dante e Virgilio sono passati attraverso il centro della terra, la loro prospettiva cambia e Lucifero appare a testa in giù, con le gambe che si alzano in aria. Considera le implicazioni dei paralleli visivi tra Lucifero e gli altri abitanti dell’inferno.

Eternamente mangiati dalle tre bocche di Lucifero sono – da sinistra a destra – Bruto, Giuda e Cassio (Inf. 34.61-7). Bruto e Cassio, infilati con i piedi nelle fauci di Lucifero, rispettivamente nero e giallo-biancastro, sono puniti in questa regione più bassa per il loro assassinio di Giulio Cesare (44 a.C.), il fondatore dell’Impero Romano che Dante vedeva come una parte essenziale del piano di Dio per la felicità umana. Sia Bruto che Cassio combatterono dalla parte di Pompeo nella guerra civile. Tuttavia, dopo la sconfitta di Pompeo a Pharsalia nel 48 a.C., Cesare li perdonò e li investì di alte cariche civili. Tuttavia, Cassio continuò a nutrire risentimento contro la dittatura di Cesare e arruolò l’aiuto di Bruto in una cospirazione per uccidere Cesare e ristabilire la repubblica. Riuscirono ad assassinare Cesare, ma le loro ambizioni politico-militari furono presto ostacolate da Ottaviano (poi Augusto) e Antonio a Filippi (42 a.C.): Cassio, sconfitto da Antonio e pensando (erroneamente) che Bruto fosse stato sconfitto da Ottaviano, si fece uccidere da un servo; Bruto perse infatti una battaglia successiva e si tolse anche la vita. Per Dante, il tradimento di Bruto e Cassio di Giulio Cesare, il loro benefattore e il supremo sovrano secolare del mondo, è complementare al tradimento di Giuda Iscariota di Gesù, l’uomo-dio cristiano, nella Bibbia. Giuda, uno dei dodici apostoli, si accorda per tradire Gesù per trenta pezzi d’argento; compie il suo ruolo di traditore – previsto da Gesù nell’Ultima Cena – quando in seguito identifica Gesù alle autorità con un bacio; pentito di questo tradimento che porterà alla morte di Gesù, Giuda restituisce l’argento e si impicca (Matteo 26:14-16; 26:21-5; 26:47-9; 27:3-5). Soffrendo ancora di più di Bruto e Cassio, il Giuda di Dante è messo a testa in giù nella bocca centrale di Lucifero, con la schiena scorticata dagli artigli del diavolo (Inf. 34.58-63).
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Altri Giganti (Briareo, Tito, Tifone) (31)
Anche se Dante e Virgilio non li visitano, altri tre giganti torreggianti sono nominati in Inferno 31. Briareo, che Virgilio descrive come uguale in dimensioni a – ma anche più terrificante di – Efialte (Inf. 31.103-5), appare nell’epica di Virgilio come un mostro che si dice abbia cento braccia e mani, con il fuoco che brucia nelle sue cinquanta bocche e nei suoi petti; così brandiva cinquanta scudi e spade per difendersi dai fulmini di Giove (Aen. 6.287; 10.565-8). Statius si limita a descrivere Briareus come immenso (Tebaide 2.596). Ripetendo l’accoppiamento di Lucano di Tito e Tifone come giganti inferiori ad Antaeus (Pharsalia 4.595-6), Virgilio fa appello all’orgoglio di Antaeus “minacciando” di andare da loro se Antaeus non fornirà un passaggio giù al cerchio 9 (Inf. 31.124-6). Tito è ben rappresentato nella letteratura classica come un gigante il cui tentato stupro di Latona (madre di Apollo e Diana) gli vale un destino raccapricciante negli inferi: un avvoltoio si nutre continuamente del fegato immortale di Tito (Aen. 6.595-600; Met. 4.457-8). Tifone fu abbattuto dai fulmini di Giove e, a seconda delle versioni, sepolto sotto l’Etna in Sicilia (e quindi causa di occasionali eruzioni vulcaniche: Met. 5.318-58) o sotto l’isola di Ischia nel Golfo di Napoli (Aen. 9.715-6).

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Cocito (32-4)
Dante chiama il cerchio 9, un lago ghiacciato, Cocito (dal greco, che significa “lamentarsi”). Uno dei fiumi dell’oltretomba classico, il Cocito è descritto da Virgilio come uno specchio d’acqua scuro e profondo che circonda una foresta e nel quale si riversa la sabbia vomitata da un gorgo torrido (Aen. 6.131-2; 6.296-7; 6.323). Nella Vulgata (la Bibbia latina), Cocytus designa la valle (o torrente) della morte che riceve i malvagi, anche – e soprattutto – quelli che hanno prosperato nel mondo (Giobbe 21.33).
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Audio

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“sì che l’un capo a l’altro era cappello” (32.126)
così che l’un capo a l’altro era cappello

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“Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno” (33.75)
allora, più forte del dolore fu la mia fame

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“E quindi uscimmo a riveder le stelle” (34.139)
siamo poi emersi per rivedere le stelle
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Study Questions
Perché un lago ghiacciato è un luogo appropriato per la punizione dei traditori nel cerchio più basso dell’inferno? Descrivi il contrapasso generale per il tradimento.
I Giganti e Lucifero sono figure orgogliose che appaiono divise, con solo le metà superiori dei loro corpi visibili a Dante e Virgilio. Allo stesso modo, metà dei corpi di Cassio, Giuda e Bruto sono dentro le massicce fauci di Lucifero. Il conte Ugolino, d’altra parte, è raddoppiato con il suo nemico mortale, l’arcivescovo Ruggieri. Puoi pensare ad altre figure divise o raddoppiate impigliate nella rete infernale dell’orgoglio di Dante?
L’invidia è l’altro peccato capitale a cui non viene assegnato un cerchio o una regione specifica nell’inferno di Dante. Vedi prove di invidia nel cerchio finale dell’inferno? nei cerchi precedenti?
Trova esempi della “partecipazione” di Dante in questi canti che descrivono il cerchio del tradimento.
Perché pensi che stelle–“stelle”– sia l’ultima parola di tutte e tre le parti della Divina Commedia?
Cambiamento di valori
Come uomo europeo relativamente privilegiato del tardo medioevo, Dante certamente condivide – nonostante il suo intelletto e la sua immaginazione – molte opinioni che noi moderni potremmo giustamente considerare non illuminate. Queste potrebbero includere l’intolleranza religiosa ed etnica, un atteggiamento riduttivo verso le donne e una comprensione eterosessista dell’amore e della sessualità. In alcuni aspetti – per esempio, la sua difesa dell’impero (e l’opposizione a idee più democratiche e repubblicane) – potrebbe essere considerato reazionario anche per il suo tempo e luogo.